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La Repubblica 8/06/2024 “Pensai di morire”

By 08/06/2024 Giugno 9th, 2024 No Comments

Alberto Luca Recchi, esploratore del mare: “Al primo incontro con uno squalo pensai di morire. Sono creature meravigliose, assurdo mangiarle”

In occasione della giornata mondiale degli Oceani, l’intervista al subacqueo che per primo cercò balene e squali nel Mediterraneo

Una volta lavorava nella finanza, ma era tutta un’altra vita. Perché la vera strada di Alberto Luca Recchi, il primo esploratore a mondo a organizzare nel ‘98 una spedizione nel Mediterraneo alla ricerca delle balene e poi di nuovo degli squali nel ‘99, era segnata da sempre. “Allora ad andare sott’acqua in giro per il mondo eravamo una ventina”. Oggi, a 68 anni, accantonate le esplorazioni, lascia traccia
di 40 anni di esperienze attraverso il suo podcast “Un mare di storie”.

Perché nessuno aveva mai cercato le balene nel Mediterraneo prima di lei?
“Me lo chiedo anche io, anche perché si sa dai tempi di Plinio il Vecchio che si trovano lì. Anzi da Omero, le cui sirene, in realtà, non erano altro che le megattere con i loro canti. Ho visto che da altre parti del mondo queste spedizioni si facevano già e mi sono detto: ‘Ma sai cosa? Ci provo io’”.
Come andò?
“È stata un’esplorazione faticosissima, perché le balene sono molto timide ed elusive e appena entri in acqua vanno via. Quella alla ricerca degli squali invece è finita con una beffa”.
In che modo?
“Li abbiamo cercati ogni giorno per sei mesi dalla mattina alla sera. E ogni settimana mi collegavo in diretta su Superquark, attraverso uno dei primi videofonini, e Piero Angela mi chiedeva aggiornamenti su un eventuale avvistamento dello squalo bianco. La prima settimana nulla, la seconda nemmeno, alla fine era diventato davvero imbarazzante. Fino a quando scoprimmo al telegiornale che un bambino di 11 anni ne aveva fotografato uno davanti a una spiaggia di San Benedetto del Tronto”.
Chissà che oggi non stia intraprendendo anche lui la stessa carriera. La sua è una passione che si porta dietro fin da piccolo?
“La riconduco a due ricordi. Il primo è di quando mia nonna mi raccontava le favole di mare prima di andare a dormire. Erano sempre popolate da giganti che uscivano dalle onde, spalancavano le enormi fauci e inghiottivano i marinai. Ma alla fine si concludevano sempre bene per un motivo o per un altro: uno starnuto, uno sbadiglio. E pensare che mia nonna non aveva nemmeno mai visto il mare, se non un paio di volte a Ostia”.
E l’altro ricordo?
“Quando avevo 12 anni i miei genitori mi portarono in Sardegna, a Santa Teresa di Gallura. A un certo punto vidi della gente affollarsi sul molo, intorno a un uomo che aveva pescato due pesci enormi. Io rimasi affascinato da quelle creature perché mi sembrarono esattamente quelle descritte da mia nonna. Tutti invece andavano verso il pescatore per chiedergli un autografo: era Mike Bongiorno”.
E la prima immersione?
“Non l’ho cercata. Al primo anno di università io e un mio amico decidemmo di fare un viaggio alle Maldive. Non avevamo dépliant o robe del genere, quindi immaginavamo di ritrovarci in un posto come potrebbe essere oggi Gallipoli. Invece era praticamente deserta, c’era solo un istruttore di sub argentino e la sua fidanzata. Lì feci la mia prima immersione e scattai delle foto che oggi giudicherei orribili, perché la tecnologia si è evoluta un sacco. Però quando tornai a casa e le mostrai nessuno riusciva a credere che sott’acqua ci fosse un mondo intero”.
La fotografia poi se la portò dietro tutta la vita.
“Il mio primo libro di fotografie uscì nel ‘93 e lo feci con Piero Angela, fu il nostro primo lavoro insieme. Un giorno mi chiamò per chiedermi di collaborare con lui, stentavo a crederci. Io allora lavoravo con il Venerdì di Repubblica. Mi disse che voleva fare un libro sul Mediterraneo: ‘Certo, lo conosco bene’, gli dissi.
Invece in vent’anni avevo girato i mari di tutto il mondo, ma non avevo mai fatto un’immersione in quello che stava dietro casa. Allora mi misi sotto a lavorare e per tre mesi quasi non uscii dall’acqua”.

Come ci si prepara per un’esplorazione così lunga?
“Un tempo non c’era Google, ci si informava comprando più libri possibili, poi si scrivevano lettere le cui risposte arrivavano dopo settimane e si partiva con informazioni contrastanti, incomplete. Per questo si cercava di partire con bagagli carichi di tutto ed erano pesantissimi. Poi iniziai anche ad allenarmi sul nuoto, dopo che una volta mi persero in mare per nove ore”.
E li squali poi li trovò mai?
“Li avevo già visti in altre parti del mondo, la prima volta fui graziato. Perché lo vidi arrivare all’improvviso e per la paura mi feci male su uno scoglio e iniziai a perdere sangue. Pensai ‘ecco, è finita’. Invece andò via. Se tutti hanno in mente l’immagine dello squalo come quella di un mostro è anche colpa di noi fotografi che l’abbiamo sempre mistificata: li attiravamo con del cibo e poi li fotografavamo a bocca spalancata. In realtà siamo noi che mangiamo loro, non viceversa”.
La paura poi passa?
“No ce l’ho ancora oggi, per fortuna. Quella è la mia polizza assicurativa per mezzo secolo, non di certo il coraggio. Però ho fatto anche tante cose spericolate”.

Del tipo?
“Credo di essere stato il primo a incontrare un capodoglio da vicino, alle Azzorre, in Portogallo. Sono come balene ma con denti enormi, possono inghiottire calamari giganti e fanno agguati negli abissi. Però per fare delle belle fotografie devi avvicinarti tanto. Una volta sono anche riuscito a vedere la margherita, cioè la formazione con cui i capodogli si riposano in superficie e socializzano tra loro, strofinando i capoccioni a pelo d’acqua. Un’emozione pazzesca, che ti fa sentire piccolissimo in confronto. Ti fa capire che non siamo noi i padroni della natura, siamo degli ospiti e così dovremmo comportarci”.
La crisi climatica la spaventa?
“Tantissimo, perché il mare è la più grande emergenza ambientale del pianeta. Solo che quasi non se ne parla perché nessuno se ne accorge. Se viene giù un ghiacciaio tutti lo vedono, ma se viene distrutta una pineta subacquea che ha impiegato mille anni a crescere nessuno lo sa. Mezzo secolo fa il mare era pieno di pesci, oggi al massimo trovi della plastica”.
Che si può fare?
“Nel mio piccolo io sto progressivamente diventando vegetariano, perché il pianeta non può sostenere la nostra alimentazione da uomini delle caverne. Mio nonno mangiava il delfino, cosa che oggi sembra assurda. Eppure continuiamo a essere i primi importatori di carne di squalo in Europa e le nostre tavole ne sono piene: smeriglio, verdesca, palombo, gattuccio. Ma mangiare uno squalo o un pesce spada è come mangiare una pantera o un orso”.
La pesca, però, è un settore centrale in Italia.
“Ormai vive solo grazie ai sussidi. E poi la pesca industriale, che copre il 90% di quello che mangiamo, ha un costo per gli oceani che nessuno paga. Spesso i pescatori vengono paragonati agli agricoltori, ma non seminano nulla, raccolgono e basta. E i pesci sono considerati merci, anche se hanno un’intelligenza propria e un sistema nervoso compatibile con la sofferenza”.